Out There: Oceans of Time Recensione – Un potenziale spaziale, ma sprecato

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Lo spazio, come viene detto in una certa serie tv, è l’ultima frontiera: un luogo misterioso, e che è realistico pensare, non riusciremo mai a conoscere tutto. Neanche con un viaggio che durasse centinaia di migliaia di generazioni. Viene da chiedersi se qualcuno da qualche parte ci stia già provando ad esplorare la vastità dell’universo e se un giorno finiremo per incontrarci.
Ma rimaniamo con la testa ad oggi. Oggi per noi quel viaggio è a malapena cominciato, visto che non siamo ancora riusciti a “toccare” nemmeno i pianeti del Sistema Solare, ma un buon libro, un film, un telefilm o un videogioco, ci possono dare la possibilità di navigare fra le stelle.
Out There: Oceans of Time, GDR basato sull’esplorazione e la gestione di risorse con elementi rogue like, è uno di quei titoli. Nella fattispecie si potrebbe parlare di Out There come di una vera e propria “Odissea nello spazio” visto che saremo messi al comando di una nave sperduta nello spazio per l’appunto… e nel tempo.

Il nemico dell’universo

La trama del gioco segue uno schema classico, ma è abbastanza interessante.  Siamo nel futuro L’umanità ha colonizzato altri pianeti e la Terra è ormai un luogo mitologico di cui si racconta solo nelle storie. Come molti sospettavano l’homo sapiens non era la sola specie intelligente esistente. Rapporti commerciali e diplomatici con i cosiddetti alieni non sono nulla di sorprendente e non sono fonte di alcuna ostilità. Lo so, è una cosa difficile da credere, ma il motivo di questa utopia è uno: l’esistenza dei Cubi. Queste entità dalla peculiare forma geometrica sono degli esseri quasi onnipotenti e dotati di infinita saggezza. Ogni specie si è volontariamente affidata alla loro guida, ponendo fine ad ogni guerra e conflitto: grazie a loro l’universo è in pace come mai prima. A qualcuno però questa pace non soddisfa.

Un potentissima creatura di nome Archon ha dichiarato guerra ai Cubi, e con il suo potere intende conquistare ogni forma di vita e far regnare il caos. Dopo innumerevoli e sanguinosi sforzi l’Archon viene finalmente fermato e imprigionato a bordo della nave del Capitano Nyx. Alla donna e al suo equipaggio viene affidato il compito di scortare il pericolosissimo  prigioniero fino ad una fortezza-prigione in grado di contenerlo, ma proprio ad un passo dal completamento del loro obiettivo accade il disastro.


Out There: Oceans of Tim

Una nave di fedeli di Archon riesce ad abbordare la nave e distruggerla liberando cosí il proprio signore e lasciando a Nyx e ai suoi come unica alternativa quella di entrare in una camera criogenica e sperare che qualcuno prima o poi li venga a salvare. Quando Nyx finalmente si risveglia dalla criogenia peró l’amara sorpresa: sono passati ben 100 anni dalla fuga di Archon e l’universo non è più quello che conosceva. Cose terribili sono accadute durante il suo sonno. Sentendosi responsabile di tutto, Nyx, con l’aiuto dell’ingegnere Sergei, unico superstite del suo equipaggio, decide di buttarsi in una missione disperata per fermare Archon. Un’impresa pericolosa che la porterà ad esplorare una miriade di sistemi stellari alla ricerca di un modo per riportare l’equilibrio nella galassia. Ed è a questo punto che comincia l’avventura del giocatore.
Come detto si tratta di una trama abbastanza classica, ma che offre terreno interessante per vari sviluppi e colpi di scena. E il bello è che in Out There ci sono gli sviluppi e colpi di scena, solo che manca la scrittura.

Out There: Oceans of Tim

Mi riferisco soprattutto ai dialoghi, veramente, veramente banali, e allo sviluppo dei personaggi, praticamente assente. Le conversazioni fra Nyx e Sergei, cosí come il loro rapporto, si trascinano nel piattume più totale per tutte le 8 ore circa di durata del gioco. A volte sembra quasi di leggere i dialoghi che uno potrebbe inventarsi pensando alla parodia di un GDR, visto quanto tutto è infarcito di stereotipi e scontatezze. Risulta dunque molto difficile empatizzare con i personaggi e questo non fa bene alla trama, perché anche se succedono cose interessanti, come fa a fregarmene veramente qualcosa se tutto accade a delle macchiette? Ed è veramente un peccato, perché in realtà qualche piccolo guizzo a livello narrativo c’è, soprattutto a livello di world building, ma poi viene tutto sepolto da linee di dialogo sterili come una sala operatoria.

Tante cose tutte assieme…

Se il comparto narrativo delude si può sempre sperare nel gameplay, no? E allora cosa si fa, in pratica, in Out There?
Il gioco ci pone al comando di una nave spaziale sperduta nell’oceano di stelle, con l’obiettivo di seguire le tracce dell’Archon e trovare un modo per fermarlo. Fare ciò significa saltare di sistema stellare in sistema stellare e la cosa non è impresa semplice, sopratutto ora che l’universo è tornato ad essere un luogo ostile.
Senza più avamposti dove poter acquistare risorse e carburante l’unico modo è procurarsi tutto da soli. Questo vuol dire scendere sulla superficie di pianeti sconosciuti con tutti i rischi che ciò comporta. Ed è principalmente questo che si fa in Out There: esplorare e raccogliere risorse su pianeti generati proceduralmente. Il tutto è gestito tramite una mappa stellare dove ogni volta il giocatore può scegliere quale sistema esplorare. Ci sono vari tipi di stelle e pianeti, ognuno con caratteristiche diverse, anche molto peculiari.

I buchi neri ad esempio, grazie ad uno speciale modulo della nave, possono essere utilizzati come veri e propri portali per compiere salti di diversi anni luce in un sol colpo. La nave è difatti potenziabile attraverso l’implementazione moduli di varia natura, i cui più utili sono indubbiamente quelli tecnologici, che servono a  migliorare le prestazioni della nave o dotarla di nuove funzionalità. La gestione dei moduli è totalmente libera: tramite un menù è possibile smantellare e costruire qualunque modulo, a patto di avere le risorse necessarie.


Out There: Oceans of Tim


Inizialmente la gestione delle risorse rappresenterà il problema principale da affrontare, visto che qualunque azione si compie con la nave, ma davvero qualunque azione, consuma risorse. Consuma risorse saltare da un sistema all’altro, avvicinarsi ad un pianeta, atterrare su un pianeta e perfino ridecollare. Pertanto ogni azione va attentamente calcolata, altrimenti si rischia di arrivare alla schermata di game over, perché non siamo riusciti a riparare lo scafo della nave, danneggiato dall’ennesimo salto nel warp. E game over in Out There può voler dire perdere dei progressi, visto che il sistema di salvataggio è gestito tramite dei satelliti che fungono come una sorta di checkpoint spaziali, sparsi più o meno a random sulla mappa. Solitamente ce n’è sempre uno vicino alle missioni principali, ma non è detto che riusciate a trovarlo prima che vi capiti qualche disgrazia fra capo e collo. Perché badate bene: ad ogni salto c’è la possibilità di incappare in un evento casuale, dove in stile avventura testuale si deve scegliere come comportarsi di fronte ad un imprevisto. E può trattarsi veramente di qualunque cosa. Come un palloncino nello spazio che in verità si rivela essere un mostro spaziale capace di spezzare la nave in due. Per dire eh. E se le cose finiscono veramente molto male in quel caso bisogna ricominciare dal checkpoint precedente e riaffrontare l’imprevedibilità dello spazio.

Out There: Oceans of Tim

Al viaggio interstellare si affiancano quelle di esplorazione dei pianeti, che si svolgono come nei più classici GDR turnativi: visuale dall’alto, mappa divisa ad esagoni, abilità da usare utilizzando “punti azione” dei personaggi, eventi da affrontare, e item che danno bonus.
In questa fase la difficoltà risiede nel non far morire i membri dell’equipaggio. La morte di Nyx o Sergei comporta anche in questo caso il game over, mentre quella di altri eventuali membri dell’equipaggio sarà permanente. Il cristallone gigante che avete reclutato come esploratore si intossica i polmoni con un miasma tossico e muore? Addio, cristallone. A te e a tutte le abilità che permettevano al team di esplorare più facilmente. Cosí è la vita.

… un po’ troppo alla rinfusa

Parlandone così sembra che di “polpa” questo gioco ne abbia tanta no? 8 ore, ma intense. In verità purtroppo non è così. Perché in quelle 8 ore capita di fare sì, tutte queste cose, ma mai in maniera soddisfacente visto che tutto finisce fin troppo presto.

Out There: Oceans of Tim


Di per sé ogni meccanica funziona anche piuttosto bene presa singolarmente, ma già dopo appena un paio d’ore viene da chiedersi: “Tutto qui?”
Perché di roba ce n’è e funziona, ma è tutta abbozzata, poco approfondita. Ad esempio: superato il primo impatto con la gestione delle risorse poi diventa facile organizzare un giro di routine per non rimanere mai a corto. E la cosa si semplifica ulteriormente una volta ottenuti alcuni moduli specializzati. L’esplorazione dei pianeti dopo un po’ diventa ripetitiva e diventa solamente un modo per ottenere certi tipi di risorse in maniera più rapida. La profondità delle meccaniche di gioco si appiattisce in poco più di qualche ora e tutto l’insieme di oggetti, moduli e abilità secondarie dei personaggi, diventa praticamente inutile: si può finire tranquillamente il gioco usando sempre lo stesso equipaggiamento. E in un gestionale roguelike non dovrebbe essere assolutamente così.

Ispirato, ma spigoloso

Tecnicamente Out There presenta degli alti e bassi piuttosto curiosi. Se le fasi di esplorazione spaziale offrono degli scorci niente male, con pianeti e stelle abbastanza dettagliati, le scene di dialogo mostrano dei modelli dei personaggi parecchio datati, tanto che a quel punto sarebbe stato meglio mettere al loro posto dei disegni, che sarebbero risultati sicuramente più espressivi. Si salvano solamente i model degli alieni che sono realizzati sicuramente meglio degli umani, complice anche un character design che non ha paura di fare incursioni nella xenobiologia più sfrenata. Gli alieni presenti in Out There infatti non sono i classici umanoidi antropomorfi, ma creature di ogni tipo, come il succitato cristallone, o il caro amico roccioso che potete ammirare qui sotto.


Out There: Oceans of Tim


Ugualmente ispirato è il design delle navicelle spaziali e quello degli edifici presenti negli avamposti e nelle città sparsi qua e là sui pianeti. Piuttosto spartani invece i menù, in particolare quello di gestione della nave: si poteva fare decisamente fare qualcosina di più per renderlo un minimo più accattivante. Senza infamia e senza lode la colonna sonora, così come tutti i vari effetti sonori.
Recensione
  • Valutazione Finale
    60Voto

    Out There: Oceans of Time è un gioco che non riesce a trovare un'identità. Tenta di essere troppe cose e questo fa sì che ogni meccanica di gioco sia solo accennata, scarsamente approfondita. Stessa situazione sul lato narrativo, dove degli spunti interessanti si concretizzano poi situazioni e dialoghi banali. La sensazione è quella di avere per le mani un progetto che ha cambiato direzione più e più volte, senza mai sceglierne una. Si porta cosa la sufficienza, perché alla fine è giocabile e un minimo di impegno si vede che c'è stato. Da prendere in saldo e solo se non avete niente altro di meglio a cui giocare.

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